Lunedì 25 Novembre 2024 - Anno XXII

Isola di Pasqua, una cartolina dai confini del mondo

“Dove sono finito? Storie inaspettate da luoghi inaspettati”, edizioni EDT, è un libro di Don George, storico collaboratore di Lonely Planet e curatore di questa raccolta di racconti intorno all’idea di “Nowhere”. Trenta frammenti di vita dei migliori autori di narrativa di viaggio del mondo, accomunati da un imprevedibile grado di disorientamento. Come in questa storia che vi proponiamo, vissuta nei Mari del Sud…

I Moai, le enormi statue di pietra simbolo dell'isola
I Moai, le enormi statue di pietra simbolo dell’isola

Il vento sibilava sulle scure rocce vulcaniche ai margini del piccolo prato antistante le nostre stanze, simili a quelle di un motel. Sull’isola tutte le costruzioni erano riunite a piccoli grappoli, come tanti bungalow. Tra un edificio e l’altro, nella luce del tardo pomeriggio, si vedevano passare le donne polinesiane, con i capelli lunghi fino alla vita e i movimenti sinuosi e armonici. Per la maggior parte del giorno non si sentiva volare una mosca. Proprio alle nostre spalle si ergevano vigili le grandi statue di pietra sparse per tutta l’isola, e pronte ad attirare gli esseri umani nel luogo più disabitato e solitario della terra. Eppure, più che dalle statue, si restava colpiti dai gesti di vita quotidiana su un’isola che pareva essersi staccata dal resto del mondo, rivendicando per sé un angolo remoto dell’immaginazione.
La domenica, un uomo con una lunga tonaca decorata con i geroglifici della scrittura ko-hau rongo-rongo celebrava una strana messa, mentre ragazze-chierichetto passavano tra una cinquantina di fedeli facendo la questua. Per il resto del tempo, l’isola presentava tutte le caratteristiche di un luogo in cui un negozio su due è sempre chiuso, e anche quelli aperti non sembrano in grande attività. Con il calare dell’oscurità, in cima a un’altura solitaria si vedevano brillare tre grandi croci bianche.
L’Isola di Pasqua è il luogo che anche in sogno non potrebbe avvicinarsi di più a Nowhere, che qui significa anche fuori dal tempo oltre che senza un perché.

Isola di Pasqua, una cartolina dai confini del mondo

Su ogni tavolo della stanza, in cui tutto rimbombava nel vuoto, c’era una scatola di Nescafè, dall’apparenza minacciosa come quella delle statue di pietra che punteggiavano enigmatiche le colline erbose dell’isola. Accanto al bricco, una scodella di saccarina. Parte di quella gioia carica di tensione che si prova partendo per un ‘non luogo’ è che ci si rende conto ben presto che le cose interessanti da vedere sono meno importanti di ciò che non si vede (oppure, nel nostro caso, di ciò che vedete ma che mai vi sareste aspettati di vedere). Il viaggiatore cerca di scivolare nelle fenditure tra ciò che era nelle sue intenzioni e ciò che invece è nella realtà, squarci in cui non trova – almeno sull’Isola di Pasqua – assolutamente niente, e in grande abbondanza.

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Ogni tanto ci giungevano voci su qualche ristorante da parte di viaggiatori più intrepidi, arrivati sull’isola con lo spirito di chi va a fare una visitina ai nonni per Natale. Beh… c’era del pesce… diciamo, commestibile… La raccomandazione finiva lì, e non era granché convincente. Mia madre, per giunta, nata in India e di buona famiglia hindu, non mangia carne né pesce né pollame. Eravamo venuti in questo Nowhere per fuggire da tutto questo e adesso cominciavamo a desiderarlo ardentemente.

Isola di Pasqua, una cartolina dai confini del mondo

Sull’Isola di Pasqua le mie giornate trascorrevano in modo piuttosto strano, come fossi arrivato in uno spazio onirico in cui passeggiavo lungo corridoi paralleli della mia mente. Se volevo andare in città, dovevo vagabondare per quelle strade deserte, quasi senza macchine, oppure aspettare un autobus il cui arrivo era previsto di lì a sei mesi. Se volevo telefonare a un collega di New York, dovevo trovare una cabina, come quella su cui effettua i suoi viaggi spazio-temporali il Doctor Who dell’omonima serie televisiva di fantascienza (oppure come nell’indimenticabile film Locai Hero), per poi sentire nella cornetta un perfetto sconosciuto che dalla frenetica Manhattan non faceva che parlare di chissà quali scadenze con tanti telefoni che squillavano in sottofondo. L’unica connessione internet che trovai era in un’agenzia di viaggi gestita da uno svizzero non più giovane, con strani ciuffi di peli dietro alle orecchie, che aveva appeso alla parete una piccola foto Polaroid con una stupenda ragazza del posto e un bambino: silenziosa spiegazione del perché le tre settimane del suo soggiorno turistico fossero diventate sette anni.

Mia madre cominciò ben presto ad assomigliare a un’elegante citazione di se stessa. Ai piselli in scatola del pranzo seguiva il mais in scatola della cena; se per pranzo avevamo mais in scatola, per cena ecco di nuovo i piselli in scatola. Quando rammentai a mia madre che l’isola aveva risorse così limitate che nel diciannovesimo secolo gli indigeni erano arrivati a divorarsi tra loro e la popolazione era scesa a poco più di cento individui, non mi sembrò che la notizia la consolasse particolarmente.
Nowhere offre molti più aspetti ironici e curiosi di qualsiasi altro luogo, magari denso di associazioni di idee e molteplici attività. Così come in una stanza giapponese completamente vuota e decorata solo da un fiore la mente si concentra all’istante su quell’unico elemento, allo stesso modo, sull’Isola di Pasqua, essa cerca di aggrapparsi a ogni minimo particolare.
Nowhere può diventare una sorta di monastero in cui fuori di noi sentiamo solo il silenzio, mentre dentro di noi si aprono spazi immensi proprio per l’assenza di qualsiasi distrazione.
I miei giorni sembravano tendersi come l’oceano su cui fissavo lo sguardo, lasciandomi nient’altro che passeggiate (nella mente o sull’erba delle colline).

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