Cosa unisce il relitto del galeone “Nuestra Señora de la Concepciòn”, schiantatosi nel 1638 sulle scogliere coralline dell’isola di Saipan nel Pacifico, ai mobili laccati dei “Gabinetti Cinesi” di molti palazzi europei?
La risposta è in una linea sottile che nelle antiche carte marinare dell’ “Archivo de Indias” di Siviglia unisce Manila, nelle Filippine, ad Acapulco nella Nueva España, l’attuale Messico.
Non si tratta solo di una rotta marittima lunga quasi metà del globo terrestre ma è, insieme, la più appassionante epopea navale a memoria di marinaio.
Per duecento cinquant’anni, dal 1565 al 1815, una linea regolare di galeoni ha trasportato merci e passeggeri per oltre quindicimila chilometri attraverso l’oceano Pacifico, “il lago spagnolo”.
Nâo de Manila, preziose mercanzie dall’Oriente
Quelle che l’Occidente avrebbe chiamato “cineserie”, e che avrebbero trasformato vita e abitudini del Vecchio Continente, sono arrivate in Europa a bordo di queste navi chiamate in vari modi: galeone di Acapulco, nâo de Manila, nâo de China.
Le loro stive contenevano oggetti preziosi che facevano impazzire le corti europee: perle e diamanti di Ceylon, topazi e avorio dell’India, tessuti del Bengala, ambra, salnitro per la polvere da sparo e spade samurai, le “katanas” del Giappone.
Ancora: gioielli in filigrana delle Filippine, pepe, noce moscata, cannella, vaniglia e cinnamomo delle isole della Sonda, zaffiri e rubini del Siam e della Cambogia.
Ma era la Cina a fornire le merci più preziose: le statue di giada e avorio, i broccati e le sete per cui stravedevano creoli americani e hidalgos spagnoli e le splendide porcellane Ming, oggetto di grande ammirazione in Europa dove il segreto della loro lavorazione venne scoperto solo nel diciottesimo secolo.
L’oceano, veicolo di ricchezze
Tutto era cominciato quasi per caso dopo l’arrivo di un “sampan” cinese nel porto di Manila, carico di merci sconosciute, che i mercanti locali avevano spedito verso l’unico mercato possibile, la ricca colonia della Nueva España.
Erano andate letteralmente a ruba e in pochi anni le Filippine si erano trasformate in un immenso bazar in cui affluivano prodotti da tutta l’Asia, mentre gli spagnoli avevano abbandonato qualsiasi altra occupazione per procurarsi prodotti cinesi, filippini, cambogiani, giapponesi, sperperando le ricchezze guadagnate e vivendo nel lusso più sfrenato.
Tutta l’economia filippina viveva in simbiosi con il galeone che, tornando da Acapulco, portava l’argento messicano e il “situado”, la somma di denaro inviata da Città del Messico per il mantenimento annuale di una colonia totalmente incapace di sopravvivere con i propri mezzi.
Un naufragio significava un disastro economico lungo un anno e non solo per i mercanti: soldati e funzionari, vedove squattrinate e pii monsignori, tutti commerciavano senza pudori. La parola chiave era la “boleta”, il permesso che dava diritto a una quota del “fardo”, lo spazio in cui era suddivisa la stiva del galeone.
Chi non aveva nulla da caricare poteva rivendere la sua quota e non è difficile immaginare a che tipo di lucrosi affari si dedicassero i pubblici funzionari della colonia, mentre i beni non registrati venivano nascosti ovunque, anche all’interno delle forme di formaggio o nelle bocche dei cannoni, cosa piuttosto imbarazzante nel caso di un attacco di pirati.
Tutto in mano ai mercanti cinesi
Dietro le quinte si muovevano i veri protagonisti, gli abilissimi cinesi del quartiere Parian chiamati “sangleys”, da “sang-li” (commercio) che si resero rapidamente indispensabili, controllando ogni attività di Manila.
I sangleys erano soprattutto inarrivabili nella capacità di raddoppiare la merce stivata in ogni fardo, con un sovrappeso che se era una manna per i commercianti, rappresentava spesso un pericolo mortale per la nave.
Quando il galeone, salutato dal suono a distesa delle campane e dalle salve di cannone, salpava verso l’entrata vera e propria del Pacifico (El Embocadero) chi era a bordo sapeva di essersi imbarcato in un viaggio in cui la morte, sempre in agguato, poteva facilmente trasformare la nave in una bara collettiva.
Come nel caso del San José, che fu trovato al largo di Acapulco carico solo di morti, o come le numerose navi perdute, più di quaranta, affondate nelle tempeste o abbordate da pirati europei e asiatici.
Nâo de Manila: viaggi pericolosi
Per millecinquecento pesos d’argento chiunque aveva diritto di imbarcarsi e tentare l’avventura. E con duecento ducati investiti nelle Filippine se ne potevano ricavare oltre duemilacinquecento in Messico, a patto di sopravvivere a tempeste, tifoni e malattie.
Per molti mesi il galeone diventava un microcosmo di trecento persone costrette a convivere schiacciate una sull’altra: ufficiali, fanti di marina, un equipaggio poliglotta di spagnoli, filippini, malesi e cinesi e un universo di passeggeri che rappresentava uno spaccato della società coloniale spagnola; nobili e missionari, suore e nobildonne, fino ai “reos”, i carcerati tenuti in catene nelle sentine.
I documenti di queste navi, conservati nell’Archivo de Indias, elencano il numero delle gallette e le tempeste incontrate, ma difficilmente rendono l’atmosfera che si respirava a bordo.
Sono molto più eloquenti testimonianze come quella raccontata nel “Giro del mondo” dell’italiano Francesco Gemelli Carreri, che fece la traversata nel 1696. Scriveva: “La nave è piena di bisce e vermi, che gli spagnoli chiamano “gorgojos” e nascono nelle gallette, crescono tanto rapidamente che in poco tempo non solo girano tra le cabine, i letti e i piatti, ma si attaccano al corpo. Abbondano le mosche, che cadono nella minestra e nella quale nuotano vermi di ogni tipo, mentre nella zuppa di pesce nuotano bisce, e non si sa se sia carne o pesce”.
Dopo mesi di mare, l’America
Mentre la traversata continuava in mezzo a una distesa liquida senza fine, in una sequela di giornate sempre uguali a sé stesse, equipaggio e viaggiatori cercavano disperatamente i segni dell’avvicinarsi della terraferma, qualche ramo trascinato dalle correnti o la presenza di uccelli.
Poi appariva il primo lembo del continente americano, Cabo Mendocino, e da quel momento la navigazione proseguiva lungo la costa fino a Cabo San Lucas in Baja California, nato proprio come indispensabile punto di approvvigionamento d’acqua dolce prima dell’ultimo balzo verso le coste del Messico.
Quando la nave arrivava nella baia di Acapulco, le stive venivano svuotate e la grande spiaggia, protetta dai cannoni del Forte di San Diego, si trasformava in un immensa fiera dove le merci erano mostrate ai mercanti che arrivavano da Città del Messico o dal lontano Perù.
Carovane di muli si inerpicavano lungo la “strada di Cina” attraverso le aspre montagne della Sierra Madre, trasportando le merci più preziose fino a Taxco e Città del Messico. Qui alcuni pezzi venivano comprati dalla ricca borghesia creola, come testimonia la fontana della “Casa del Risco” letteralmente intarsiata di vasellame cinese; il resto veniva imbarcato a Veracruz e spedito in Spagna.
Nâo de Manila: scambi “materiali” e culturali
Cosa è rimasto oggi di questa “via del galeone”, per secoli la più importante arteria di scambio culturale e commerciale tra Europa e Asia?
Anche dopo la sua fine, quando l’irrompere di altre potenze commerciali sulla scena del Pacifico e l’Indipendenza del Messico misero fine alla “Nâo de Manila”, il sistema di commercio del Pacifico restò legato alle rotte di questo periodo.
Ma soprattutto per quasi tre secoli l’Occidente e l’Oriente avevano avuto modo di incontrarsi e il gusto occidentale ne era stato profondamente influenzato, mentre gli artigiani orientali avevano cominciato a produrre espressamente per il mercato europeo: rosari, crocifissi, giocattoli per bambini e ogni sorta di concepibile bric-a-brac. Due mondi avevano imparato a conoscersi, nelle stive del più straordinario e pericoloso ponte navale di tutti i tempi.
Azulejos
Sono proprio le ceramiche, i tipici “azulejos”, a rivelare l’affascinante intreccio di complesse influenze culturali di un paese come il Messico, soprattutto l’influenza araba nella cultura portata dagli spagnoli nel Nuovo Mondo.
In questa vicenda è stato particolarmente importante il ruolo dagli artigiani provenienti dalla città di Talavera de la Reina in Castiglia, che nella città coloniale di Puebla, hanno creato uno stile particolare, da allora chiamato in Messico “talavera de Puebla”.
L’intreccio di influenze, spagnole, arabe e cinesi, attraverso la Não de Manila ha dato poi origine a una ricca produzione artistica diffusasi in tutta la Nueva España, a partire da Città del Messico.
La Não de Manila ritrovata
Il pettine d’oro massiccio reca inciso un nome: “Doña Catal d Gusma” (Dona Catalina de Guzmàn). Lo ha trovato un’équipe di sub americani nel 1988, tra preziosi contenitori di rare essenze orientali e raffinati gioielli, vicino al relitto del “Nuestra Señora de la Concepción”, un galeone spagnolo naufragato nel 1638 sulle scogliere coralline dell’isola di Saipan, proprio in mezzo al Pacifico.
La sua storia è esemplare per capire cosa si nascondeva dietro l’epopea della Não de Manila, perché la Concepción era comandata da Don Juan Francisco Hurtado, un inesperto ragazzo di poco più di vent’anni che però era nipote del governatore delle Filippine.
L’incarico doveva in realtà servire a coprire i traffici “in nero” dello zio, ma di fronte all’inesperienza del giovanissimo capitano ben presto gli ufficiali si divisero in fazioni, arrivando anche a scontri armati. La Concepción, in balia di venti e correnti, fu trascinata sulle scogliere e alla fine i morti furono circa quattrocento e solo sei i superstiti.
Messico: sulle tracce del Galeone Não de Manila
Ad Acapulco, lo storico forte di San Diego, edificato nel 1616 per proteggere l’unico porto spagnolo del Messico sul Pacifico. Inoltre ancora oggi ogni novembre si svolge una fiera chiamata Nâo de China, che commemora il galeone di Manila, con spettacoli teatrali e mostre d’arte orientale.
A Taxco, la splendida cattedrale di Santa Prisca è legata alla incredibile fortuna di Don Josè de la Borda, gentiluomo francese trasformatosi in uno degli uomini più ricchi delle Americhe dalla caduta del suo cavallo, letteralmente inciampato su una vena d’argento. Uomo molto pio, Don Josè pensò di sdebitarsi con il buon Dio regalando a Taxco una cattedrale; “Dios da a Borda, Borda da a Dios”.
Taxco è inoltre famosa anche per la lavorazione dell’argento, con più di trecento laboratori specializzati.
A Città del Messico, la Casa del Risco, Plaza san Jacinto, Coyoacàn. Nel patio c’è una bella fontana incrostata da piatti cinesi, una delle ultime tracce visibili dell’epopea della Nâo de China. Da non perdere anche museo dedicato all’arte coloniale e particolarmente alla storia della ceramica messicana: Museo Franz Mayer, Avenida Hidalgo sul lato nord dei giardini di Alameda.
Info: – www.visitmexico.com
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